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Dall’Eremo di San Giorgio al Santuario della Madonna della Corona
I Cammini della Corona
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Dall’Eremo di San Giorgio al Santuario della Madonna della Corona

Da vedere

Un’associazione, quale la presente, che si fregia dell’espressione pro loco, già nell’intestazione dichiara in modo esplicito, senza riserve, di intendere operare esclusivamente a beneficio della locale comunità di Caprino Veronese: aliena da secondi fini, da interessi privati.

Espressione comune di un associazionismo vitale che, nelle varie connotazioni, caratterizza le nostre generose popolazioni, si identifica, però, per l’attenzione, in particolare, riservata alla valorizzazione, alla promozione del territorio caprinese nei suoi aspetti paesaggistici, ambientali, storico-artistici. Così la Pro Loco si fa attiva protagonista di innumerevoli iniziative indirizzate alla conservazione e alla valorizzazione di un patrimonio che si vuole anche condividere e fra queste si pone il progetto “ I cammini della Corona”.

I cammini della Corona

CAMMINO DEI MONACI

Dall’Eremo di San Giorgio al Santuario della Madonna della Corona

Presentazione 

Il progetto “I cammini della Corona” nasce dalla dichiarazione del Ministero dei Beni Culturali e Turismo che ha proclamato il 2019 come “Anno nazionale del turismo lento”.

Il turismo lento è un turismo di nicchia che si propone quale alternativa al turismo “tutto e subito” o “mordi e fuggi” perché presuppone il camminare con ritmi che consentono di guardarsi intorno, concedendosi il tempo di osservare, di assaporare, di ammirare e di vivere l’esperienza di un luogo “ascoltandone” le storie.

La ricchezza storica, culturale, religiosa ed anche enogastronomica del nostro territorio può in tal modo essere messa a disposizione di chi intende vivere un’esperienza “intima” (anche se non necessariamente solo) e crede che il camminare a “passo lento” sia una filosofia in cui le gambe sono sì il veicolo ma è la persona intera che entra in gioco; il cammino stesso ci procura un senso di libertà che è anche un guardare (non solo un vedere distrattamente e velocemente), uno scoprire un territorio, un rendersi conto di quello che è o è stato, un relazionarsi con le persone e le “cose” che si incontrano e si scoprono.

Il progetto “I cammini della Corona” è impostato appunto sul paradigma del “camminare lento” ed è imperniato su due caposaldi del nostro territorio: l’Eremo camaldolese di Bardolino ed il Santuario della Madonna della Corona.

Abbiamo pensato quindi a vari itinerari che, partendo da direzioni diverse (l’alto lago di Garda, il baso lago, le colline di Rivoli, Ferrara di monte Baldo), arrivino a questi due punti nevralgici del territorio con una serie di varianti che spesso, intersecandosi tra loro, permettono al viandante di scegliere il proprio “cammino”.

Oltre agli splendidi paesaggi naturali, che lo accompagnano, il “camminatore” entra in relazione con un patrimonio storico, artistico, spirituale, dato dalle numerose chiesette medioevali, dai capitelli, dalle croci votive, ma anche dai palazzi, dalle ville, dai monumenti, dalle fontane e dai lavatoi: da tutto ciò che i nostri antenati hanno costruito e ci hanno lasciato in eredità perché, appunto, ne potessimo “godere” con coscienza e responsabilità.

Nei più o meno lunghi percorsi, infine, non possono mancare dei momenti di sosta e luoghi, che abbiamo debitamente provveduto ad individuare e a segnalare, dove sostare e riposare; rifocillarsi, gustando i prodotti tipici, per “assaporare” il nostro splendido territorio, e, magari, trascorrere anche la notte.

 

Walter Pericolosi

  

Prefazione

 

Quello cosiddetto religioso è a tutt’oggi il turismo più diffuso che muove su tutta la Terra masse di fedeli di ogni confessione. Si tratta di un fenomeno generale, trasversale che non riguarda soltanto l’universo cristiano, in particolare cattolico, e trova le sue motivazioni, ben oltre l’aspetto prettamente turistico del viaggiare, del visitare-conoscere, in una necessità, dall’uomo sempre avvertita, di un soccorso soprannaturale nei pericoli, nelle calamità che il semplice fatto di esistere comporta; di un conforto ai mali, alle sofferenze dell’anima e del corpo.

Così fin dalle origini del Cristianesimo, magari anche sollecitato dalle narrazioni agiografiche, si assistette ad un flusso di devoti che si mettevano in viaggio per recarsi sui luoghi dove si conservavano le sacre reliquie o le spoglie tumulate dei santi. A Verona, per restare in un ambito a noi prossimo, fin dagli inizi del V secolo il vescovo Petronio scriveva di come al sepolcro di Zeno, il santo patrono della città, convenisse una folla di devoti, di afflitti nel corpo o nell’anima a implorarne l’ausilio e di come egli provvedesse prodigiosamente a guarire gli infermi, a mondare gli animi dal peccato, restituendo la gioia della purezza.

Ovviamente fin d’allora non poteva essere ignorato, aspetto di certo profano ma di sostanza, l’opportunità di profitto che tali flussi di devoti comportava. Ricorderò, dicendo di una santa pure a noi vicina, l’Adelaide prigioniera sulla rocca di Garda, che, una volta accoltene le spoglie mortali, i monaci del monastero dei Santi Pietro e Paolo, a Seltz in Alsazia, provvidero prontamente a redigere un Liber miraculorom, dove si narrava dei miracoli dalla santa compiuti: un testo proprio ad uso dei pellegrini, ad incentivarne la devozione, le visite e… le donazioni.

In tempi meno lontani è nota a tutti la diffusione del culto per la Vergine ed il proliferare di venerati santuari, quali, sempre in un ambito locale, quelli della Madonna della Corona a Spiazzi, della Madonna del Frassino a Peschiera, della Beata Vergine del Soccorso a Marciaga. In questi convenivano non solo singoli devoti, ma persino intere comunità, come si sa della gente di Bardolino che nel 1665 si era recata processionalmente al santuario della Corona ad invocare la pioggia. Ottenuta la grazia, un celebre quadro venne fatto dipingere per ex voto a tramandarne la memoria.

E mantenere il voto era un adempimento così grave che nemmeno la morte poteva sciogliere. Così in testamenti del Quattro-Cinquecento non sono infrequenti disposizioni da parte dei testatori a che i propri eredi siano tenuti, personalmente o tramite dei sostituti, a soddisfare il voto di un pellegrinaggio al santuario della Madonna di Loreto, alla basilica di Sant’Antonio di Padova, ma pure alla chiesa della Madonna della Corona che in vita non avevano potuto mantenere.

E oggi, nonostante il distacco dai valori dello spirito, ci tenta ancora il farci pellegrini e cercare consolazione ai nostri giorni, quando questi ci assalgono cupi e minacciosi.

 Giuliano Sala

 

  

Il santuario della Madonna della Corona

Santuario della Madonna della Corona

La leggenda popolare

In una notte di giugno del 1522 alcuni abitanti del Baldo notarono degli intensi bagliori luminosi provenire dalle rocce attorno alla Corona, un luogo inabitato, molto impervio e praticamente irraggiungibile. Questi, stupiti ed incuriositi da quella luce, si protesero, affacciandosi, sulle alture rocciose sottostanti, e udirono provenire dal basso una dolce melodia. Così, anche più meravigliati, avvertirono la necessità di accertarsi di quanto accadeva e di “svelare” quel mistero!

Non c’erano allora sentieri percorribili, le pareti rocciose erano inaccessibili: l’unico modo per raggiungere il luogo, da dove provenivano la luce e la delicata melodia, era quello di farsi calare in basso attraverso corde annodate. Ed ecco, messo in atto lo stratagemma, la sorpresa: una statua della Madonna, con il Cristo morto sulle ginocchia, che emanava una “strana” luce.

Dopo attimi di smarrimento, scioltisi nella preghiera, decisero di issare in alto la bella statua, perché tutti la potessero ammirare e la collocarono quindi in una piccola cappella alla quale accorsero subito numerosi fedeli.

Ma l’indomani la statua era “sparita”: tutti la cercarono, ma nessuno riusciva a trovarla, finché decisero di calarsi ancora da quelle rocce e… la ritrovarono miracolosamente nel luogo del giorno precedente. La riportarono così nella cappellina e ancora, durante la notte, la statua “ritornò” tra le rocce.

I devoti abitanti compresero allora che quella era la volontà della Madonna e quindi, proprio dove era apparsa, costruirono un’edicola in muratura ove riporre la statua.

La voce naturalmente si diffuse e tra i vari pellegrini che vi accorsero ci furono anche alcuni cavalieri Gerosolimitani i quali riconobbero in essa la statua della Madonna scomparsa d’improvviso da Rodi nel 1522, quando l’isola era caduta in mano ai Turchi: gli angeli l’avrebbero trasportata tra le rupi del Baldo.

 

Walter Pericolosi

 

 Cenni storico-artistici su edifici religiosi e luoghi di spiritualità lungo “Il cammino dei monaci”

 

Eremo di San Giorgio di Bardolino

La Congregazione camaldolese di Monte Corona, a seguito di donazioni, avviò sul monte San Giorgio di Bardolino la fondazione di un eremo che, ultimato nel 1665, venne nel 1672 eretto in priorato. Soppresso nel 1810 in causa delle disposizioni napoleoniche sugli ordini monastici, il complesso dell’eremo fu acquistato dal conte Danese Burri che fece abbattere le cellette di mezzo, mentre le laterali furono adibite ad abitazione dei contadini, impiegati nella lavorazione dei terreni messi a coltura. Nel 1885 la Congregazione lo riacquistò dagli eredi insieme a tutto il monte San Giorgio e vi inviò nuovamente dei monaci. Questi, tranne che per una breve parentesi fra gli anni 1962-1972, vi rimasero fino a quando nel 1993 a loro subentrarono i monaci camaldolesi di Toscana ai quali l’eremo era stato concesso in comodato dal vescovo di Verona. La chiesa monacale, costruita in stile moderatamente barocco sulle rovine di un antico oratorio, è a un’unica navata con sacrestia e tre cappelle laterali; pregevole il coro con 24 stalli in noce ad accogliere i frati nella recita dell’Ufficio Divino giornaliero. Fra i dipinti, che ornano gli altari, ricordiamo le pale con le raffigurazioni di San Giorgio e il drago, di autore ignoto e in passato erroneamente attribuita a Giovanni Tedeschi, di San Romualdo, opera di Palma il Giovane, e della Vergine fra sant’Anna e san Gioacchino di Francesco Paglia.

 

Cimitero militare tedesco di Costermano

Sul colle Le Guardie, in località Baesse di Costermano, si stende in uno scenario di verde punteggiato d’erica il Cimitero ossario realizzato fra gli anni 1956-1967. Qui furono raccolte le salme di oltre 22.000 soldati tedeschi, caduti negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, tratte da cimiteri militari e occasionali luoghi di sepoltura dell’Italia settentrionale. I filari ordinati delle lapidi ne segnano le sepolture in un monito contro la guerra e anelito di pace. Recentemente il comune di Costermano sul Garda ha avviato il progetto per la realizzazione di un parco contiguo, significativamente denominato Parco dell’amicizia dei popoli.

 

Oratorio di San Rocco di Pesina

L’oratorio di San Rocco, che si affaccia sul lato sud della strada che da Costermano porta a Pesina, è documentato almeno dal 1523 con funzione di accogliere alla celebrazione della messa la gente del posto, specie i contadini nel periodo estivo. Nel tempo ebbe diverse ristrutturazioni fino all’aspetto odierno con facciata in stile neoclassico, unica aula, dotata di due cappelle laterali, e abside quadrangolare, dove si conserva la seicentesca pala d’altare di Giovanni Ceschini con la raffigurazione del santo titolare; addossato alla controfacciata un elegante coro sopraelevato.  Sull’esterno della parete est si eleva il campanile quadrangolare, sormontato da tamburo ottagonale e cuspide piramidale in laterizi, con sulla sommità una statuetta assai rovinata che avrebbe raffigurato san Rocco.

 

Oratorio di Sant’Antonio abate di Boi

L’oratorio di Sant’Antonio, oggi sconsacrato ed adibito ad usi profani, è documentato in un testamento del 1441 col quale tale Fazio del fu Gisalberto da Pesina lasciava quattro ducati per l’acquisto di un messale da usarsi nella chiesa. Dalla presenza di questa prende nome anche la località in cui si situa, nominata nelle carte almeno dal 1476. Nel ‘500 lo si sa appartenere al priorato di Sant’Antonio della Ghiara di Verona e quindi al Seminario vescovile, dopo che a questo era stata concessa la commenda dell’antico priorato. Oratorio e terreni di pertinenza rimasero così di proprietà del seminario finché nel 1867, in conseguenza delle cosiddette Leggi eversive dell’asse ecclesiastico, furono incamerati dal Regio Demanio. Tramite quindi asta pubblica, furono messi in vendita e acquistati da privati; oggi appartiene alla famiglia Gentili che se ne serve in funzione dell’azienda vinicola.

 

Oratorio di Santa Maria della Mercede di Boi

L’oratorio di Santa Maria della Mercede, anticamente intitolato a San Giovanni, è documentato dalle visite pastorali del ‘500, ma la presenza in passato al suo interno del celebre polittico attribuito al pittore Altichiero, ora presso il Museo di Castelvecchio, ne fa supporre l’esistenza almeno dal tardo secolo XIV. L’edificio odierno in stile neogotico è frutto di una radicale ristrutturazione operata intorno alla metà dell’Ottocento dalla famiglia Cattarinetti, quando l’oratorio iniziò anche ad essere noto col titolo di Santa Maria della Mercede, concessogli in onore della Vergine dalla comunità di Boi per essere stata preservata dal contagio del colera nel 1836.

 

Oratorio di Santa Eurosia di Rubiana

L’oratorio di Sant’Eurosia, protettrice dalle tempeste e pure dalle siccità, venne edificato negli anni 1737-1742 su iniziativa dei capifamiglia delle locali contrade di Balconi, Dosso de’ Tononi e Guìn. Nel 1806, causa i decreti napoleonici sulla soppressione degli oratori pubblici, la chiesa venne chiusa e incamerata dal Regio Demanio, ma immediatamente venne riaperta al culto ad uso della gente del posto. L’edificio in stile neoclassico con elegante facciata timpanata ha un un’unica aula, terminante nell’abside pentagonale, dove si conserva una tela settecentesca, raffigurante Il martirio di sant’Eurosia.

 

 Palazzo Carlotti e il gruppo scultoreo de “Il Compianto”

Palazzo Carlotti

Odierna sede municipale del comune di Caprino Veronese, il palazzo venne edificato su un edificio rurale quattrocentesco dalla nobile famiglia dei Vimercati che, procedendo, poi, ad un ampliamento dell’edificio, ne rimosse ogni segno di un passato connesso con l’attività agricola, in funzione di una magnificazione del decoro aristocratico. Nel 1601 il palazzo venne acquistato dal canonico Marcello Carlotti che ne lasciò immutata l’architettura, occupandosi soltanto del decoro pittorico. Solo nei primi anni del ‘700 vennero apportate le modifiche che ne determinarono l’aspetto odierno con l’aggiunta del frontone, della balaustra ai lati e dell’ala sinistra per ragioni di simmetria. L’intento autocelebrativo dei proprietari, che alla magnificenza del palazzo affidano l’espressione del loro prestigio, predomina ormai e il blasone di famiglia, che spicca nel timpano del frontone a sormontare il corpo centrale, ne è chiaro segno. Più tardi, ma sempre nel ‘700, verrà costruito il porticato che si apre ad occidente sulla corte.

All’interno, oltre alle splendide sale, fra le quali emerge l’incantevole “Sala dei Sogni”, interamente affrescata da Paolo Ligozzi e bottega nel primo ‘600 con “grottesche” e motivi d’ispirazione biblica, classica, ma anche contemporanea, è possibile ammirare in tutta la sua bellezza il gruppo scultoreo di metà  ’300, ivi collocato, dall’originaria sede presso la chiesa del Santo Sepolcro, dopo le operazioni di restauro da parte dell’opificio delle Pietre dure di Firenze. Il gruppo, attribuito allo scultore Rigino di Enrico, noto come Il compianto, rappresenta più propriamente la deposizione di Gesù nel sepolcro ad opera di Giuseppe d’Arimatea e di Nicodemo assistiti dalle pie donne e dall’apostolo Giovanni. Diversamente da altre opere del tempo di simile soggetto, il gruppo denota nei lineamenti di Gesù defunto e di vari personaggi un dolore, un’angoscia inconsolabili; la maschera orribile della morte, non più cristianamente accettata con pacata rassegnazione come l’inizio di una nuova vita, sic moriar ut vivam, ma sofferta ora quale straziante distacco: una visione che pur nella religiosità del tema assume i toni di un sentire ormai laico che precorre i tempi.

 

Oratorio di San Martino della contrada caprinese di San Martino

L’oratorio di San Martino presso l’omonima contrada è documentato almeno dagli inizi del secolo XIII quale cappella della pieve di Caprino, come si evincerà dalle visite pastorali del ‘500; a partire, poi, dal 1568 andò soggetto alla neo costituitasi parrocchia di Pazzon. La chiesa, con annesso in passato anche un piccolo cimitero, servì per secoli, nonostante i giuspatronati dei nobili Brenzoni e Montagna sui rispettivi altari, alla popolazione della contrada che vi conveniva ad assistere alla Messa finché in tempi moderni decadde a semplice oratorio e oggigiorno vi si celebra solo occasionalmente. L’edificio, pur privato della facciata con l’addossarvisi nel ‘500 della casa, all’epoca, costruita ad uso del cappellano, mostra nella navata e nell’abside semicircolare chiari segni dell’originaria costruzione romanica; successivamente, sul finire del ‘400 venne aggiunta sul lato di settentrione la cappella a contenere l’altare eretto dal nobile Antonio Montagna; quindi nel secolo successivo  vi si appoggiò sul lato di meridione un portico, sorretto da tre pilastri, dal quale si ebbe accesso alla chiesa tramite due ingressi. Nel ‘700 fu eretto il campanile. All’interno spiccano sul catino e l’arcata absidali gli affreschi del primo ‘400 con le raffigurazioni di Cristo in mandorla e de L’annunciazione; sull’esterno altri affreschi del primo ‘300 riportano le immagini di San Cristoforo e di San Martino e il mendicante. Quindi un ulteriore dipinto votivo, eseguito questo nel 1512 su committenza della famiglia Montagna, raffigura La Madonna in trono col Bambino fra i santi Sebastiano e Rocco, invocati a protezione dall’imperversare della peste. Di pregio si conservano all’interno la pala d’altare, di fine secolo XV, della cappella Montagna con I santi Francesco, Antonio di Padova e Agapito e il paliotto dell’altare maggiore, fatto eseguire da Alessandro Brenzoni nel 1513, con I santi Caterina d’AlessandriaMartino e Lucia.

Oratorio di San Martino (Video)

Oratorio di San Rocco di Gaon

In seguito all’epidemia di peste del 1511 gli abitanti della contrada maturarono il proposito di erigere un oratorio in onore di san Rocco, protettore dal morbo. Il voto andò, però, nel dimenticatoio e solo l’infuriare nuovamente della peste nell’estate del 1630 li indusse a portarlo a compimento. In uso alla comunità di Gaon almeno dal 1634 ebbe nel tempo due successivi ampliamenti, sul finire del ‘600 e nel primo decennio del secolo scorso, che ne determinarono un allungamento in direzione est; dell’edificio originario permane l’elegante facciata a capanna in stile classico. In una nicchia, scavata nel timpano del frontone, sta una statuetta seicentesca in pietra, raffigurante il santo titolare.

Oratorio della Beata Vergine del Carmelo di Vilmezzano

Fin dal tardo ‘400 si sa dell’esistenza di un oratorio dedicato a san Bernardino da Siena; quindi nel secolo successivo il titolo fu mutato in onore della Madonna del Carmelo la cui statua veniva portata processionalmente fino al santuario della Beata Vergine del Soccorso a Marciaga. Nel 1703 la chiesa fu devastata dalle soldataglie franco-spagnole nel corso della guerra di successione di Spagna, ma fu prontamente ristrutturata e, in particolare, dotata di un nuovo altare in stile barocco, dove ora sta la pala con Madonna con Bambino fra angeli e i santi Sebastiano, Antonio di Padova, Bernardino e Rocco, Sebastiano e Antonio di Padova, opera del 1723 di autore ignoto. Alienato al Regio Demanio in seguito alle soppressioni napoleoniche, l’oratorio venne poi restituito al culto. Decorata nel 1914 dagli affreschi in stile liberty del pittore gardesano Antonio Pimazzoni, la chiesa conserva le belle linee della ristrutturazione settecentesca con facciata timpanata, unica aula, cappella laterale e abside poligonale. La vecchia sacrestia addossata sul lato sud funge oggi da cappella invernale.

 

Oratorio dell’Immacolata Concezione di Braga

L’oratorio dell’Immacolata Concezione, abbarbicato su uno sperone roccioso nei pressi della contrada di Braga, fu edificato in stile neogotico nel 1938 per sopperire alle necessità spirituali della gente del luogo, disagiata dalla distanza della parrocchiale di Pazzon. Colpita da un fulmine nel 1975, la chiesa fu prontamente restaurata e riaperta al culto nell’agosto del 1976.

 

Santuario della Madonna della Corona

Già nel tardo secolo XII degli eremiti avrebbero fondato alla Corona di Monte Baldo una prima chiesetta, documentata almeno dal 1203 come dipendente dal monastero veronese di San Zeno, sulla quale si sarebbe sviluppato il santuario mariano. Dal 1437 i possedimenti in area montebaldina del monastero di San Zeno risultano acquisiti dai Cavalieri di Rodi, in seguito di Malta, per cui se ne desume che anche la chiesa della Corona passasse alle dipendenze dell’ordine. La dipendenza perdurerà quindi ininterrottamente sino alla fine del Settecento e in tale tempo si avranno le varie ristrutturazioni della chiesa, le fabbriche degli edifici annessi, i lavori a facilitare l’accesso e un impulso al culto per la sacra immagine della Madonna della Pietà, presso il santuario presente almeno dal terzo decennio del ‘500.

Arresasi Malta alla flotta francese nel corso delle guerre napoleoniche, il santuario fu acquisito nel 1806 dall’episcopio veronese e con decreto del 12 giugno 1812 il vescovo Innocenzo Liruti lo assegnò alla parrocchia di Ferrara di Montebaldo. Questa ne mantenne la giurisdizione fino al 1905 quando il cardinale Bartolomeo Bacilieri lo separò dalla parrocchia e gli concesse un rettore autonomo. Nel 1966, infine, il vescovo mons. Giuseppe Carraro affidò la gestione del santuario al Seminario vescovile di Verona che da allora ha cura di inviarvi i rettori e di provvederne al governo. Nel 1982 la chiesa fu dichiarata basilica da papa Giovanni Paolo II che ebbe poi a visitarla il 17 aprile del 1988.

 

Giuliano Sala

 

Quick Info

  • Altitudine max 879 metri
  • Distanza 20,5 km
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Il sentiero dei monaci

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